Bruno Malavasi, Il Custode Dei Segreti Di Campari Group

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Il sapere è un tesoro, la pratica è la sua chiave. Nella realtà del bere mondiale, la ricetta originale di Campari è la perla nascosta in uno scrigno, da sempre: come un tesoro, appunto, custodito dalla passione e dall’impegno di un guardiano saggio e sorridente. Che prima di raccogliere l’onere ha immaginato e si è domandato mille volte, cosa fosse celato dietro la porta della camera dei segreti, come scherzando la definisce lui. Bruno Malavasi è il Responsabile Ricerca e Sviluppo del Gruppo Campari: tra le sue dita corrono le redini dell’approvvigionamento, della gestione e dell’assemblaggio delle miscele d’erbe dei prodotti Campari Group. È arrivato in azienda nel 1995: “Prima mi occupavo di farmacocinetica, chimica analitica: fui letteralmente lanciato in un percorso di formazione fittissima, mi inserirono subito. Ero già addentro alla produzione, nel ’98 gestivo l’impianto di Termoli. Ma le erbe e il loro utilizzo erano ancora lontane, non avevo il permesso di accedervi e mantenevano un alone di mistero. Erano una calamita per me”.

Oggi (dal 2014, ndr), è lui ad avere la chiave, a governare la sala dei bottoni, quando si parla di ricette, dosi e processo produttivo. Un ruolo che lo pone in una categoria praticamente a sé stante, e che gli permette di gettare uno sguardo sull’intero universo beverage come nessun altro. “Le bevande alcoliche rappresentano un settore delicato per natura. La panoramica legislativa e regolatoria è pressoché in continuo sviluppo, e parallelamente da vent’anni, come azienda, ci stiamo espandendo sempre di più. Questo comporta una formazione attiva che non ha mai fine, per adattarci alle novità e all’organico che cambia; dall’altro lato è uno scenario incredibilmente entusiasmante proprio perché dinamico, non si finisce mai di imparare e sperimentare“. Nulla cambia davvero, è piuttosto un processo di evoluzione che coinvolge gli oltre cinquanta marchi del Campari Group. Tutti, peraltro, accomunati da un denominatore fondamentale ed eccellente: “Non c’è nulla di banale, di scontato. Ogni prodotto ha un background tecnico e storico diverso, affascinante, che richiede enorme dedizione”.

Fascino che si traduce in emozione, anche nell’anima di chi non se lo sarebbe mai aspettato. “Io sono un tecnico, ho una mentalità scientifica, per certi versi rigida ma funzionale. Eppure, faccio fatica a descrivere le sensazioni provate quando per la prima volta ho avuto accesso alla camera dei segreti, all’ultima fase della produzione: capire dosaggi e ragioni, le componenti, le logiche nascoste dietro il disegno e il progetto di prodotti storici. E al tempo stesso comprendere e soddisfare i desideri di un consumatore, percepirne le emozioni”. La consacrazione a custode dei miti di Campari Group è una delle tappe più profonde della vita di Bruno, non solo professionale: “Capii che qualcuno si fidava di me, e non credo possano esistere tanti riconoscimenti di questo livello. Ed è stato un passo in più nell’esperienza vera e propria, nella mia formazione umana, insieme ai momenti che ne sono poi seguiti: come quando scoprii che l’inventore del Cynar, Rino Pinton Dondi, mi avrebbe ricevuto. Trascorremmo un’ora arricchente, ebbi la possibilità di conoscere una delle persone che hanno fatto fisicamente e letteralmente la storia delle nostre abitudini“. Rapportarsi a un’etichetta, a un liquido e alle vite che gravitano loro intorno, è una scala mobile verso una dimensione di consumo superiore: “L’esperienza dipende dalla conoscenza. Apprezzare un prodotto permette di concentrarsi sul sorso, sull’olfatto, sulla storia. È rispettandolo, che se ne trae il meglio”.

Bruno conserva nella sua mente alcuni tra i segreti più preziosi del mondo del bere (e non solo). Un bagaglio di responsabilità enorme, portato con classe e umiltà che andrebbero spiegate in qualsiasi seminario per i più giovani: “Non nego la responsabilità, ma in azienda c’è chi davvero ne ha di ben più importanti, chi mette tutto se stesso per far andare avanti una macchina planetaria, da cui dipendono decine di migliaia di famiglie. Piuttosto posso fregiarmi di un certo orgoglio, perché hanno affidato a me un incarico del genere. È ovvio ci siano dubbi e tensioni, gestire i rapporti con i partner produttivi è sempre impegnativo, rispettare scadenze e proiezioni ha la sua dose di stress. Ma sono in fondo queste le scintille che danno gli stimoli per fare tutto al meglio”.

In quasi trent’anni di vita in Campari Group, le diapositive dei consumatori si sono consumate a furia di girare, descrivendo l’evoluzione dei gusti delle varie generazioni: “C’è stato un passaggio ammirevole verso la consapevolezza, in tutti i sensi. Prima di tutto riguardo una bevuta migliore, che miri alla qualità e non alla quantità; e ancor più importante, una ricerca di nuova identità. I più giovani cercano la varietà, qualcosa che parli di nozioni e storie, non più un consumo fine a se stesso. Quindi una personalizzazione dell’esperienza, quello che va bene per la massa non deve per forza andare bene per il singolo, si cerca una sorta di connessione con ciò che si beve, per sentirlo proprio”. Sempre meno interesse per le altissime gradazioni, a fronte di una maggiore gratificazione sensoriale; l’obiettivo è provare novità per sperimentare sensazioni sconosciute, ma fino a che punto? “Come in ogni aspetto della vita, deve esserci un limite. Il filo conduttore sarà sempre lo stile, l’impronta di un prodotto. È così che si sconfigge anche il tempo e si incontrano i favori di qualsiasi generazione: di Campari, ad esempio, non ho mai cambiato nulla, e l’iconicità è forse la sua arma più distintiva”.

Tanto da far trasecolare Bruno, quando l’idea di una lavorazione nuova è balenata tra le menti del suo team: “Avevo delle riserve, ma abbiamo lavorato a un livello estremamente alto, studiando reazioni, invecchiamenti. Il risultato ci dà ragione”. Campari Cask Tales, nato per la celebrazione del 150esimo anniversario dell’azienda, è infatti esempio perfetto di come un liquido che vive da un secolo e mezzo possa indossare una nuova veste più matura e rotonda, frutto del tempo trascorso in botti ex bourbon e soprattutto della collaborazione tra Malavasi e la sua squadra, che hanno guidato il percorso di circa tre anni poi culminato con la release. “È stato come viaggiare e scoprire dettagli sconosciuti, anche dopo tutto questo tempo. Una sfida che ci ha permesso di toccare con palato e olfatto sensazioni mai sperimentate prima, e giungere a un prodotto diverso, ma altrettanto duttile e riconoscibile. Se non fosse stato Campari, non so come avrebbe funzionato”. 

Non avrebbe certo mai immaginato di arrivare a difendere un patrimonio intellettuale così prezioso. E come lui, ci sarà qualcuno che si troverà a camminare sui suoi stessi passi, seguendo il filo da lui srotolato sul percorso dello studio e dell’onestà. Gli ingredienti per lavorare come lui sembrano essere pochi, in fondo: “Pazienza, enorme pazienza. I prodotti a base d’erbe hanno un’anima propria, ogni ingrediente va conosciuto e compreso: il profilo di ogni pianta, i loro aromi, le loro reazioni. Soprattutto servono tempo e voglia di sperimentare, non si può pensare di avere risultati nel giro di una notte. Anche gli affinamenti, in quanto tali, richiedono anni e dedizione”. È questa la ricetta per affrontare una professione così vasta e delicata. Quanto a quella di Campari, rimane segreta come ha fatto per centocinquant’anni. Ed è bene che sia così.

Articolo a cura di Luca Casale e Carlo Carnevale